PUNTI DI VISTA

Restituire alla sostenibilità la sua dimensione umana

Dimensione sociale e ambientale devono avanzare insieme. Solo così la transizione non lascerà indietro nessuno, e solo così potrà davvero accelerare.

di Mario Calderini

 

Calderini

Oggi, la sostenibilità si trova sul banco degli imputati. È bastato un anno, forse meno, perché un tema percepito come fondamento del vivere civile e del nostro futuro diventasse bersaglio di un’ondata di diffidenza, di scetticismo e di reazioni politiche contrarie. Viviamo in un’epoca in cui l’evidenza scientifica non è più in discussione: l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha mostrato come la traiettoria che stiamo percorrendo ci conduce oltre l’aumento di 1,5 gradi rispetto alla temperatura media preindustriale, soglia che la comunità scientifica internazionale aveva indicato come limite invalicabile per evitare scenari catastrofici, e il World Economic Forum (WEF) ha stimato che, da qui al 2050, se non saremo in grado di proteggere la biodiversità, metteremo a rischio il 50% del PIL globale. Sono dati che rendono chiara la misura del rischio che stiamo correndo. Eppure, di fronte a un pericolo tanto concreto e vicino, la società non reagisce come ci aspetteremmo. Non assistiamo, infatti, a un’azione collettiva determinata ma piuttosto a una forma di riflusso, a una reazione anticorpale che proviene dai soggetti produttivi, dai lavoratori, dalle persone comuni. Questo obbliga a interrogarci: dove abbiamo sbagliato nel racconto e nella gestione della transizione ecologica?

 

L’Europa stessa, che aveva costruito gran parte della propria identità politica ed economica sulla coesione sociale e sul rispetto dei limiti planetari, sta vivendo un’importante crisi di orientamento e l’inversione culturale è stata così radicale che, per la prima volta, si è tornati a pensare che sostenibilità e competitività siano nemiche. È una regressione simbolica grave, perché ridurre tutto a una contrapposizione frontale tra crescita e sostenibilità è un impoverimento culturale pericoloso.

Negli anni precedenti avevamo faticosamente conquistato la consapevolezza che profitto e impatto ambientale o sociale potessero convivere, che la creazione di valore non fosse incompatibile con la cura del mondo. Ora, invece, si è insinuata la tentazione di attribuire la fragilità economica europea ai “lacci e lacciuoli” della sostenibilità. Il consenso politico e sociale attorno alla sostenibilità si è incrinato perché sta crescendo la percezione che la sostenibilità sia un freno allo sviluppo. Molti cittadini hanno cominciato a percepire che i costi della transizione ecologica venissero scaricati proprio su di loro – sui più deboli, sui meno istruiti, su chi vive ai margini della crescita – ed è proprio qui che si è prodotta la frattura più lacerante. Abbiamo dimenticato che la transizione sostenibile è anche, e soprattutto, una transizione sociale. Le due dimensioni, sociale e ambientale, dovrebbero avanzare insieme, come ruote dentate che si incastrano: se una si blocca, anche l’altra rallenta inevitabilmente. I dati ci mostrano effettivamente quest’impasse drammatica, che rivela un grosso errore di prospettiva da parte di politica ed economia che hanno costruito la transizione ecologica come processo tecnico, ma l’hanno dimenticata come progetto umano.

Il Green Deal europeo, e perfino il nostro PNRR, hanno promosso parole quali digitale, verde, innovazione, ma la parola inclusione è comparsa di rado. Ed è lì che abbiamo perso il consenso, perché la sostenibilità non può essere una corsa per pochi, ma deve essere un viaggio collettivo. Prendiamo un esempio concreto: la città di Barcellona. Le sue politiche di rigenerazione urbana hanno ridotto del 25% le emissioni di CO₂, un risultato straordinario. Ma quel successo ecologico ha comportato un aumento dei prezzi delle case, espellendo le fasce più povere dai quartieri rigenerati. Si è creata così una nuova forma di ingiustizia ambientale: la sostenibilità è diventata un privilegio, non un diritto.

Questo squilibrio deriva in parte dal ruolo assunto dal mondo finanziario, dove fu soprattutto la componente ambientale ad attirare l’attenzione degli investitori, perché più facilmente traducibile in profitto. Gli strumenti ESG, nati per misurare l’impatto delle imprese, si sono sviluppati soprattutto sulla “E” di environment, poiché più semplice da quantificare e trasformare in rendimento: ridurre le emissioni, installare impianti fotovoltaici o investire in efficienza energetica genera ritorni tangibili, immediatamente leggibili dai mercati. Molto più difficile, invece, è tradurre in valore economico la coesione sociale, l’educazione, la parità di genere o la qualità delle relazioni di lavoro. Le metriche della “S” restano sfuggenti, frammentate, spesso qualitative. E ciò che non si misura tende, inevitabilmente, a contare meno. Così, mentre il capitale si è orientato verso la transizione verde, la dimensione sociale della sostenibilità è rimasta in secondo piano.

Se vogliamo davvero coniugare sostenibilità ambientale e sociale, l’unica strada è l’innovazione: trovare soluzioni che non costringano a scegliere tra obiettivi che sembrano in conflitto. L’economista Richard Nelson, poco dopo lo sbarco sulla Luna, si domandava se, dopo un’impresa tecnica così enorme, saremmo stati capaci di risolvere anche i problemi del “ghetto”, usando questa parola come metafora delle disuguaglianze sociali. La sua provocazione resta del tutto attuale: abbiamo dimostrato di poter raggiungere traguardi tecnologici incredibili, ma fatichiamo a tradurre l’innovazione in giustizia sociale. La visione Europea che vedeva l’innovazione trainata anche dalla spesa pubblica civile o ambientale rischia oggi di smarrirsi, ma rappresenta ancora la via più promettente, perché insegnare e praticare l’innovazione in un mondo di risorse finite e vincoli abbondanti è la vera sfida del nostro tempo.

Forse aveva ragione Kate Raworth, con la sua Economia della ciambella: lo sviluppo sostenibile deve mantenersi in uno spazio di equilibrio tra il soffitto ecologico e il pavimento sociale. Se si violano i limiti del pianeta, la casa crolla.

Ma se si buca il pavimento sociale, non resta più nessuno ad abitarla. È necessario ricostruire fiducia, ridare senso alle parole, restituire alla sostenibilità la sua dimensione umana, fatta di ascolto, equità, condivisione. Ma questa ricostruzione richiede due ingredienti che, ogni volta nella storia, hanno permesso all’umanità di superare le proprie contraddizioni: innovazione e legge. L’innovazione come spinta creativa, come capacità di trovare soluzioni che tengano insieme ciò che sembra inconciliabile; la legge come strumento di civiltà, che trasforma le conquiste morali in pratiche collettive.

La natura, il terzo settore, i paesi del Sud globale hanno molto da insegnarci, come il saper usare poche risorse con efficienza, con creatività, con resilienza. Se sapremo integrare questa lezione con la potenza delle tecnologie disponibili, allora potremo davvero costruire una sostenibilità trasformativa, capace non solo di ridurre le emissioni, ma di generare una società più giusta. Solo così la transizione non lascerà indietro nessuno, e solo così potrà davvero accelerare. Per questo la transizione ecologica e sociale non è una rinuncia, ma una metamorfosi. È l’occasione per riscrivere il patto tra economia e umanità, tra tecnica e giustizia, tra benessere e responsabilità. E forse si può trovare la promessa di un nuovo inizio: quello in cui l’innovazione non sarà più una forza cieca, ma una forma di cura; e la sostenibilità non un ostacolo, ma la casa comune dentro cui ricominciare a vivere insieme1.

 

1Il presente testo è una sintesi, a firma di Mario Calderini, degli interventi da lui tenuti nell’ambito del progetto Odissea Terra.


Mario Calderini

Mario Calderini è professore ordinario al Politecnico di Milano, dove insegna Management for Sustainability and Impact presso la School ofMario Calderini Management. È direttore di TIRESIA, il centro di ricerca del Politecnico sull’innovazione e la finanza a impatto sociale. Ha contribuito alla Riforma del Terzo Settore, partecipando ai gruppi consultivi del Governo, e ha fatto parte della Task Force per gli investimenti a impatto sociale. È presidente di Social Fare, incubatore di start-up a impatto, presiede il Foro per la Ricerca e l’Innovazione di Regione Lombardia e siede negli advisory board di UniCredit Italia e Nesta Italia. 

 

 

Principali dati economici e finanziari