LA CULTURA DELLA PACE
Premi Nobel ed esperti in dialogo per La cultura della Pace
Fare della cultura uno strumento concreto di crescita civile e sociale soprattutto per le giovani generazioni, questa è l’idea che ha animato il progetto di Fondazione Pesenti Ets, da oltre vent’anni impegnata in iniziative culturali, sociali ed educative, e gres art 671. A fianco della mostra ‘de bello. notes on war and peace’ si è sviluppato così il progetto ‘La cultura della pace’, un ciclo di cinque incontri che attraverso il coinvolgimento di quattro Premi Nobel per la pace, esperti e leader internazionali ha trasformato il polo culturale del gres in un palcoscenico di dialogo e riflessione su temi universali quali la pace globale, la riconciliazione e i diritti umani.
Il percorso ha preso il via con un viaggio nella storia attraverso le parole coinvolgenti di Alessandro Barbero, che ha illustrato come i conflitti del presente nascano da dinamiche antiche. Per lo storico Barbero la storia non offre leggi universali, “ma ci permette di riconoscere i meccanismi che tornano sempre, quelli che trasformano la paura in riarmo, il riarmo in paranoia e la paranoia in guerra”. È un invito a usare la memoria non per prevedere il futuro, ma per imparare a evitarne gli errori.
Dall’analisi storica si passa alla testimonianza di chi per la pace si è esposta in prima persona, sospinta dalla forza della disobbedienza civile. Tawakkol Karman, yemenita, Premio Nobel per la Pace nel 2011, ha ricordato come suo padre le avesse insegnato “a prendere sempre l’iniziativa, a non aspettare che qualcuno ci autorizzi a difendere la nostra dignità”. Per lei la pace non è un esito, ma un atto di coraggio: “La pace non è l’assenza di conflitto. È il momento in cui decidi di non accettare più l’ingiustizia, di parlare quando tutti tacciono”. Con lei sul palco c’era Samia Nkrumah – figlia di Kwame Nkrumah, padre dell’indipendenza ghanese – che ha illustrato con passione una prospettiva di unità africana fondata sulla responsabilità reciproca. La Nkrumah ha raccontato come suo padre ripetesse che “la libertà non si conquista senza sacrificio, e non si mantiene senza una visione condivisa” e ha spiegato come nei processi di pace si debba partire sempre dal possibile “nelle trattative cominciamo da ciò su cui siamo d’accordo, anche se è pochissimo. Da lì costruiamo il terreno comune”. Un suggerimento di grande attualità, un richiamo a un’idea di pace come costruzione lenta, esigente e collettiva.
Durante ‘La cultura della pace’ con Nadia Murad, Premio Nobel per la Pace 2018, il dialogo ha assunto il volto terrorizzato delle vittime dei genocidi. Murad ha sottolineato che “la pace non comincia quando le armi tacciono, ma quando le persone possono tornare a casa, ricostruire un villaggio, riavere un nome, una vita, una strada sicura”. Solo così la pace smette di essere un ideale astratto e diventa una pratica che restituisce dignità, diventa un valore quotidiano.

Kailash Satyarthi ha fatto risuonare la voce dell’attivismo globale contro il lavoro minorile. “Senza compassione non c’è trasformazione. Il mondo diventa più aggressivo, più rumoroso, più competitivo: per questo serve una voce morale collettiva, una leadership capace di proteggere i più vulnerabili” ha sottolineato il Premio Nobel per la Pace 2014. In dialogo con lui c’era Jody Williams, Premio Nobel per la Pace 1997, che ha dimostrato come l’azione civile possa cambiare trattati e governi, portando ad esempio la campagna internazionale che portò al bando delle mine antiuomo.
Il percorso si chiude con Cecilia Sala, giornalista e scrittrice, che ci ha invitati a riflettere sul ruolo dell’informazione, raccontando la guerra a partire dalla trasformazione profonda delle società coinvolte nel conflitto e dal modo in cui il linguaggio politico ha cancellato la parola pace. E questo nonostante che “per la maggioranza degli israeliani proseguire la guerra a Gaza sia sbagliato” e le leadership di “Hamas e Fatah evitano da tempo il confronto con le elezioni”. Il suo racconto restituisce l’essenza della pace non come concetto astratto, ma come possibilità quotidiana negata.
In questo straordinario intreccio di memorie, analisi e azioni, ‘La cultura della pace’ ha messo in collegamento, in comunione, esperienze lontane, voci che Fondazione Pesenti, attraverso gres art 671, non si limita a ospitare, ma assume come percorso culturale e educativo, e come impegno civile. Perché, come ci ha insegnato Jody Williams “quando vedi un’ingiustizia e non dici nulla, diventi parte del problema. Se taci sei complice”. Una frase dura che ha riecheggiato nel progetto come un monito e una responsabilità e che ci riporta all’origine di un ciclo di incontri che nasce proprio dalla volontà di prendere parola, schierarsi dalla parte della giustizia che conduce alla pace e trasformare la cultura in responsabilità condivisa.