Cos’è reportage? Cos’è arte? Da dove passa il racconto della realtà
di Salvatore Garzillo e Gabriele Micalizzi, co-ideatori della mostra “de bello. notes on war and peace” a gres art 671
Quando abbiamo iniziato a ragionare sulla collettiva in mostra a gres art 671 - “De bello. notes on war and peace” - ho pensato ai miei tanti “appunti di guerra e pace”. Alle agende accumulate negli anni, piene di racconti e di disegni.
Ero appena tornato dall’Ucraina dove avevo trascorso un po’ di mesi come cronista per raccontare l’inizio dell’invasione russa e poi il suo sviluppo. Oltre a fare il mio lavoro da giornalista con i reportage “classici”, ho disegnato molto. Ho ragionato su quanti sconosciuti avessi raccontato durante questo viaggio e di come gli sconosciuti poi in realtà siano diventati parte della mia vita. Quindi qual è il limite tra sconosciuto e conosciuto?
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Febbraio 2021. Papa Bergoglio annuncia che sta per visitare l’Iraq, una prima volta che ha un significato storico e politico, ancor prima che di dialogo religioso. Dal Vaticano ci informano che andrà alla casa di Abramo nella remota valle di Ur, che celebrerà una messa speciale nella cattedrale di Baghdad e un’altra nello stadio di Erbil. Solo alcune tappe di un fitto elenco di occasioni e incontri lungo tutto il Paese. Il 2020 è finito da poco, l’emergenza Covid non si ferma, il mondo ancora zoppica, ma capiamo che sarà un evento unico e irripetibile da documentare. Con Gabriele Micalizzi e Fausto Biloslavo parto una settimana prima dell’arrivo del Pontefice per visitare i villaggi cristiani assaltati dall’Isis. Sono concentrati nella parte nord del Paese, nel Kurdistan iracheno, in una zona che in quel momento era presidiata dalle NPU (Niniveh Plan Protection Unit), le milizie cristiane a difesa dei villaggi nella piana di Ninive, che dall’arrivo dell’Isis si erano svuotati di almeno 100mila persone. A Karamlesh, un paesino di case basse e polvere, il campanile della chiesa semi abbattuto riusciva ancora a garantire i rintocchi della messa. Troviamo ospitalità per la notte in un container gentilmente offerto da padre Paolo Habeeb. Nella canonica sforacchiata dai Kalashnikov, i miliziani delle bandiere nere avevano tagliato le mani e la testa alla statua della Madonna. Le parti mancanti erano state recuperate e salvate da un fedele che le aveva custodite in una scatola fino al nostro incontro fortuito, quando davanti a noi era stato possibile riattaccare tutto con schiuma poliuretanica espansa da cantiere. Gli operai/fedeli hanno deciso di rinunciare al restauro e, anzi, di lasciare in evidenza i danni alla scultura come fossero ferite ancora aperte e visibili a tutti.
Qualche ora di lavoro, una bomboletta di schiuma da interni, niente di complesso. Eppure, la fede e la necessità di questi uomini e donne di raccontare il proprio dolore, ci sono sembrate più salde di un restauro certificato.
Circa un mese dopo abbiamo rivisto quella Madonna: era ad Erbil, sul palco assieme a Papa Bergoglio che la benediceva come reliquia della cristianità. Quella statua di gesso, stampata in serie e senza gran valore, è diventata oggetto di culto, tradizione e speranza a causa del trauma che ha subìto.
Accadono molte cose durante quel mese di viaggio, scopriamo mondi nascosti sotto il tappeto dell’informazione convenzionale, come i ragazzi che trasformano le sure del Corano in versi da cantare su basi hip hop. Li incontriamo in una moschea nella periferia di Baghdad, sono tesi ma comunque determinati. Sanno di rischiare molto, è previsto il carcere per chi mette in musica il Corano, ma questo non ferma la loro necessità di esprimersi. I fan/fedeli in piedi sui tappeti si battono forte il petto al ritmo delle basi, sul palco salgono a turno giovani predicatori-rapper che si sfidano mostrando ognuno il proprio stile. Non capiamo le loro parole ma comprendiamo benissimo il loro bisogno comunicativo, riusciamo perfino a farci coinvolgere dalle melodie sincopate.
Ci chiediamo cosa sia reportage, cosa sia arte, cosa prevalga e cosa sia davvero importante.
Qualche giorno dopo siamo a Mosul, in quel momento è una città-rovina, con larghe porzioni collassate sotto i bombardamenti degli alleati uniti contro il Califfato. Decidiamo di andare lì dove tutto è iniziato, almeno ufficialmente. La grande moschea di al-Nuri, dove il 29 giugno 2014 Abu Bakr al-Baghdadi, in una delle pochissime occasioni registrate, salì sul pulpito per autoproclamarsi leader del nuovo Califfato. Un luogo simbolo, iconico per il Medio Oriente e anche per l’Occidente, sebbene quest’ultimo faccia fatica anche a trovarlo sulla mappa.
Con l’auto ci fermiamo davanti a un cantiere dell’Unesco, un’area transennata con decine di lavoratori impegnati nella ricostruzione di un’opera che è lì dal 1172 e che, nel giugno 2017, è stata pesantemente danneggiata nell’offensiva militare per la liberazione di Mosul dall’Isis. Al Nuri l’ha costruita Nur ad-Din Zangi (Norandino), un condottiero turco che già all’epoca si definiva comandante del jihad contro gli invasori.
Prima ancora di entrare noto che del famoso minareto pendente chiamato “il gobbo” – una specie di torre di Pisa musulmana – resta solo il moncone alla base. E dire che per molto tempo era stato il più alto della regione. La guerra cambia le dimensioni, modifica le altezze, cancella i primati.
Guardo in basso, la terra è scura, un tono di marrone mai visto. C’è una piccola gibbosità del terreno, osservo meglio, sembra una pistola coperta di polvere. È di plastica, una pistola giocattolo, anzi la metà della riproduzione di un revolver nero. Mi chiedo cosa ci faccia, su quello che è stato un campo di battaglia, un’arma di plastica. Il pensiero ha vita breve perché mi basta risollevare lo sguardo per vedere un enorme cartellone di 3 metri per 5 che segnala i vari ordigni improvvisati che potrebbero esserci in quell’area.
Ed è solo in quel momento che capiamo: il quadrato di terra in cui ci siamo fermati, a pochi passi dall’ingresso di al-Nuri, è un parchetto giochi per bambini. Come abbiamo fatto a non notarlo prima? Ci sono anche delle altalene, arrugginite e con le catene attorcigliate, ma pur sempre altalene riservate a bambini. Anche il cartellone è per loro. Qualche adulto ha ben pensato di affiancare le immagini di oggetti che nascondono un pericolo. Un pupazzo può rivelarsi una mina, una scatola di latta un detonatore, un pezzo di legno l’innesco di una bomba. Su quel cartellone c’è anche l’immagine di una pistola giocattolo come quella ai miei piedi.
Il vento la smuove, se fosse collegata a una trappola sarebbe già esplosa, ne deduco che è innocua. Raccolgo il profilo della pistola finta e la metto nello zaino, ho bisogno di portar via un brandello di realtà. Quell’oggetto non è più prezioso di un pezzo di spazzatura e, secondo me, non c’è nulla di più reale della spazzatura.
Al nostro rientro in Italia veniamo schiaffeggiati – come al solito – dalla realtà che abbiamo lasciato un mese prima e a cui non importa null’altro che di sé.
Nel mio appartamento a Milano c’è un quadretto bianco, senza cornice, su cui campeggia il profilo di una pistola di plastica impolverata. Non ci sono date, non ci sono firme, solo quel pezzo di spazzatura su un fondo bianco. Ogni volta che guardo quel rettangolo mi torna alla mente la stessa domanda scatenata davanti ai rapper del Corano o alla Madonna decapitata: cos’è reportage? Cos’è arte? Da dove passa il racconto della realtà?
Quando gli ospiti mi chiedono chi sia l’autore di quell’opera d’arte su fondo bianco, rispondo sempre: “Tutti noi”.
Salvatore Garzillo
Nato a Napoli nel 1987, Salvatore Garzillo è un giornalista freelance. Dal 2011 copre la cronaca nera per Ansa a Milano. Ha seguito i principali casi di cronaca degli ultimi 15 anni e realizzato reportage (anche illustrati personalmente) in Afghanistan, Kosovo, Grecia, Iraq, India, Brasile, Ucraina (a partire dal 2014), pubblicati su media italiani e internazionali. Ha sempre due penne in tasca e disegna ovunque, scontrini compresi.
Gabriele Micalizzi
Classe 1984, è un pluripremiato fotogiornalista che collabora con importanti testate internazionali. La sua carriera di fotoreporter in zone di conflitto inizia nel 2010, quando documenta la rivolta delle “Camicie Rosse” contro il governo thailandese. Dal 2011 inizia a documentare assiduamente la situazione nel Medio Oriente, coprendo tutti gli avvenimenti legati alla “Primavera Araba” e dividendosi tra Tunisia, Egitto e Libia e lavorando poi anche nella Striscia di Gaza, in Turchia e Siria, dove nel 2019 viene ferito da un’esplosione mentre documenta l'avanzata curda contro l'ISIS.